A cura della Dott.ssa Filomena De Falco
“…un viandante solitario si staglia in controluce su un precipizio roccioso, dando la schiena all’osservatore: ha i capelli scompigliati dal vento, è avvolto in un soprabito verde scuro e nella mano destra, appoggiata al fianco, impugna un bastone da passeggio. È lui il vero centro focale e spirituale del dipinto: ciò malgrado, ben poco si sa su quest’uomo, a parte la sua natura errabonda e introversa…”
Disturbi evitante di personalità: DSM-5 Criteri diagnostici
Un pattern pervasivo di inibizione sociale, sentimenti di inadeguatezza e ipersensibilità al giudizio negativo, che inizia entro la prima età adulta ed è presente in svariati contesti, come indicato da quattro (o più) dei seguenti elementi:
- evita attività lavorative che implicano un significativo contatto interpersonale per timore di essere criticato/a, disapprovato/a o rifiutato/a
- è riluttante a entrare in relazione con persone, a meno che non sia certo/a di piacere
- mostra limitazioni nelle relazioni intime per timore di essere umiliato/a o ridicolizzato/a
- si preoccupa di essere criticato/a o rifiutato/a in situazioni sociali
- è inibito/a in situazioni interpersonali nuove per sentimenti di inadeguatezza
- si vede come socialmente inetto/a, personalmente non attraente o inferiore agli altri
- è insolitamente riluttante ad assumere rischi personali o a impegnarsi in qualsiasi nuova attività, poiché questo può rivelarsi imbarazzante
(DSM 5, pg.779)
Il mostro evitante
«Il mostro evitante di personalità è simile
all’ansia sociale, ma di dimensioni più
ridotte e preferisce vivere al di sopra del
terreno. Essi passano la maggior parte
del tempo a nascondersi sugli alberi, usando
le ali come foglie per mimetizzarsi e
nascondersi da chiunque ci sia intorno.
Sono miopi per evitare il contatto con altri
mostri, ma in realtà sono creature gentili, con una delicata bellezza che persino loro stesse non conoscono. Interagiscono con le loro vittime in modo innocuo, desiderando
solo di essere amichevoli, ma non intenzionalmente trasmettono alla vittima
le loro preoccupazioni e le loro paure»
«Il senso di inadeguatezza, il timore di poter essere giudicati, disapprovati e conseguentemente rifiutati, porta ad un generalizzato evitamento delle situazioni lavorative e/o scolastiche che presuppongono un coinvolgimento interpersonale, nonché di esposizioni a nuove conoscenze, a meno che non siano garantiti accettazione, supporto e accudimento» (APA,1994)
Il dolore di non appartenere
«L’esperienza di estraneità e non appartenenza è centrale nel determinare e mantenere la dinamica del disturbo» (Procacci M., Popolo R., 2000).
Il Disturbo Evitante di Personalità nasce come entità diagnostica grazie a Theodore Millon (1969). Egli sostiene che tale disturbo sia caratterizzato dalla mancanza o scarsezza di relazioni pur essendo presente un forte bisogno di relazioni intime. Secondo Millon il ritiro dell’evitante è dovuto al “conflitto” tra desiderio di relazioni sociali e timore del rifiuto e del giudizio negativo. L’evitamento, sostiene Millon, è una scelta attiva con cui l’individuo evitante difende sé stesso da un ambiente che percepisce rifiutante.
Un disturbo dell’intimità
Il DEP (Disturbo Evitante di Personalità) è il disturbo dell’intimità, dove forte è il desiderio di stabilire relazioni strette, all’interno delle quali, però, ci si sente esclusi. Gli evitanti collegano il senso di inadeguatezza che vivono nella relazione all’aspettativa di essere rifiutati o giudicati negativamente; ne consegue la tendenza ad evitare, fuggire i rapporti con gli altri. Il deficit di decentramento proprio di questi pazienti amplifica il timore del giudizio negativo: i comportamenti degli altri vengono valutati come svalutanti senza riuscire a formulare ipotesi alternative.
Il profondo senso di vergogna li porta a manifestazioni di forte ansia sociale e timidezza patologica; tali sintomi possono condurre i soggetti ad uno stato di progressivo isolamento e rifiuto delle relazioni sociali, con ripercussioni più o meno gravi sia nella sfera sociale sia nella sfera lavorativa (Millon, 1969).
Il concetto di Sé
Secondo Perris (1993) il concetto di sé degli evitanti è di essere socialmente incompetenti; ciò li rende estremamente sensibili al giudizio, timorosi del rifiuto e proni a pensieri automatici auto-critici. Un giudizio negativo confermerebbe la loro convinzione di essere non amabili e pieni di difetti. La prospettiva del rifiuto è quindi per loro dolorosissima e, vista la bassa autostima, preferiscono tenere a distanza le persone che avvicinandosi, potrebbero scoprire la loro vera natura.
Secondo Beck et al. (1990) l’evitante ha un’idea di sé come inetto. Indesiderabile, inadeguato, privo di alcun valore, e mette in atto una costante autocritica. Inoltre sviluppa un problema secondario, in quanto critica il proprio comportamento evitante, accusandosi di essere pigro e passivo. Gli altri, al contrario, sono percepiti come superiori e giustamente rifiutanti e critici. Infatti, il soggetto evitante crede di meritare il rifiuto a causa della scarsa fiducia e stima in sé stesso. Partendo da tali concezioni di sé e degli altri, i soggetti con DEP tendono a distorcere l’interpretazione del comportamento altrui, leggendo anche le reazioni neutrali come negative e interpretando qualunque azione dell’altro come messa in atto in funzione propria (ovvero in funzione di ciò che in prima persona pensano di sé stessi). L’evitante ritiene di dover piacere a tutti, e dunque di dover evitare giudizi negativi, anche da parte di persone del tutto irrilevanti rispetto alla propria vita, in quanto qualunque giudizio negativo su di sé è immediatamente ed automaticamente ritenuto vero, poiché egli è sprovvisto di criteri interni in base ai quali autovalutarsi (Beck et al., 1990).
Stati emotivi
I soggetti con DEP hanno scarsa capacità di riconoscere gli stati interni e risultano «opachi» a sé stessi e agli altri. Quando la capacità di monitoraggio è conservata vengono riferite emozioni quali ansia, vergogna e paura di un giudizio negativo (Procacci M., Popolo R., 2000).
La vergogna
Un’emozione centrale del disturbo è la vergogna. Gli individui con DEP possono vergognarsi di molti aspetti del Sé (Wurmser, 1981); le situazioni sociali devono essere evitate perché è lì che le loro inadeguatezze sono esposte alla vista di tutti.
Secondo alcuni autori, il sentimento di inadeguatezza può essere spiegato in base alla presenza di un’ideale dell’io irraggiungibile, venutosi a formare attraverso l’interiorizzazione di aspetti idealizzati di altri significativi, accompagnato ad una coscienza morale, rigida e severa, dovute ad esperienze infantili di critica ed esposizione al sentimento di vergogna (Gabbard, 1994; Lingiardi, 2001).
Altri autori, invece, (Miller, 1985. Cit. In Gabbard, 1994) hanno ricondotto l’origine del sentimento di vergogna ad un’inibizione della rabbia e di sentimenti ostili provati nei confronti di figure parentali eccessivamente severe e svalutanti.
Il profondo senso di vergogna li porta a manifestazioni di forte ansia sociale e timidezza patologica; tali sintomi possono condurre i soggetti ad uno stato di progressivo isolamento e rifiuto delle relazioni sociali, con ripercussioni più o meno gravi sia nella sfera sociale sia nella sfera lavorativa (Millon, 1969).
Storia di vita
È frequente ritrovare nei racconti degli evitanti il ricordo di un’atmosfera familiare fredda e priva di calore emotivo, con genitori inflessibili, rifiutanti ed umilianti, il cui primo interesse consisteva nel mantenere un’immagine sociale impeccabile (Benjamin, 1996).
Difesa
L’evitamento o fuga risulta essere strategia privilegiata per fuggire qualsiasi occasione spiacevole e/o pericolosa, utilizzata in modo ossessivo e generalizzato, ed ha come conseguenza una grande limitazione dello sviluppo dell’Io (Freud a., 1936).
L’evitamento messo in atto dal soggetto evitante allevia stati d’animo negativi elicitati dalla rappresentazione di relazioni intime come problematiche (Beck, Freeman, 1990). Il desiderio di affetto si accompagna ad una costante paura del rifiuto, di qui il ritiro in una solitudine vissuta con tristezza.
L’evitamento coincide con una progressiva chiusura sociale, fatta esclusione del contesto familiare d’appartenenza, vissuto magari conflittualmente ma sempre con forte dipendenza. I familiari considerano l’evitamento uno stile di vita più che un problema psicologico: questo ritarda la formulazione di una richiesta d’aiuto. La minaccia della rottura dei legami di dipendenza familiare può diventare motivo di richiesta di psicoterapia da parte dei genitori (Procacci M., Popolo R., 2000). L’evitamento non riguarda solo il comportamento ma anche cognizioni ed emozioni. Dunque, oltre ad evitare di trovarsi in situazioni anticipate come spiacevoli, l’evitante cerca attivamente di non pensare a ciò che lo addolora e di non provare emozioni, utilizzando molteplici strategie di distrazione. L’evitamento emotivo riguarderebbe tutte le emozioni, sia quelle negative che positive, conducendo ad una rilevante carenza nella capacità di sperimentare piacere e ad una vita affettiva piatta (Millon & Davis, 1996).
CICLI INTERPERSONALI PROBLEMATICI
L’individuo costruisce schemi delle relazioni interpersonali che si mantengono stabili nel tempo. Nelle interazioni il soggetto, a partire da determinate credenze, bisogni, aspettative, desideri e timori, elicita nell’altro specifiche risposte, che rinforzano le credenze iniziali, peggiorando spesso la qualità della relazione (Dimaggio et al., 2001; Safran, 1984; Safran, Segal, 1990; Safran, Muran, 2000).
«Nel disturbo evitante abbiamo osservato alcuni cicli interpersonali tipici» (Procacci M., Popolo R., 2000):
1) IL CICLO DELL’ESTRANEITÀ/DISTACCO
2) IL CICLO DELL’INADEGUATEZZA/RIFIUTO
3) IL CICLO DELLA COSTRIZIONE/EVITAMENTO
• IL CICLO DELL’ESTRANEITA’/DISTACCO:
In questo caso, il soggetto con DEP, si rappresenta come estraneo alla relazione, rilevando la sua diversità/anomalia rispetto all’altro e provando impaccio. L’altro rimane distaccato nell’attesa di segnali di avvicinamento: il soggetto interpreta questo distacco come conferma della sua diversità di base (estraneo alla relazione). La persona evitante sembra cercare il distacco, ma solo apparentemente: rimane lontana dagli altri per via del senso di estraneità che le impedisce il contatto interpersonale.
• IL CICLO DELL’INADEGUATEZZA/RIFIUTO
In questo caso, il soggetto con DEP pensa: “l’altro inevitabilmente mi rifiuterà quando si accorgerà che non valgo nulla” (Perris, 1993), legge i propri segnali interni ed esterni come conferma di inadeguatezza e questo aumenta la sensazione di impaccio; l’atteggiamento timoroso può indurre gli altri a ritenerlo inadeguato e dunque a rifiutarlo. La percezione di tale valutazione negativa aumenta il senso di inadeguatezza.
• IL CICLO DELLA COSTRIZIONE/EVITAMENTO
In questo caso, il soggetto con DEP sente l’altro vicino ma oppressivo; legge l’interesse dell’altro nei suoi confronti come sfruttamento o desiderio di sottometterlo, ha difficoltà a riconoscere le cause del suo stato interno e a fronteggiare il problema con mezzi adeguati. Quello che percepisce è solo un forte senso di costrizione e/o ingiustizia subìta, venata spesso da rabbia inespressa e dal desiderio di fuggire ogni possibile discussione o chiarimento. L’altro, a sua volta, si sente ferito dal suo mancato coinvolgimento nella relazione, si sente solo a gestire emozioni che l’evitante non discute (costretto alla relazione). Quando l’evitante si sottrae al rapporto a causa del senso di costrizione, l’altro aumenta inizialmente le richieste di coinvolgimento e i rimproveri. La reazione dell’evitante è di incremento del senso di costrizione ed ulteriore allontanamento dell’altro. L’esito è spesso la rottura della relazione.
DEP E DEPRESSIONE
L’evitamento, assieme alla costante autocritica, conducono ad uno stato emotivo fondamentalmente depresso, interrotto soltanto da fugaci fantasie riguardanti il futuro, caratterizzate dalla risoluzione completa e senza alcuno sforzo personale dei propri problemi (Beck et al., 1990).
Il soggetto evitante, una volta solo, intraprende spesso attività o passatempi che, momentaneamente, lo gratificano e lo proteggono dal contatto interpersonale (es. ascoltare musica, collezionare film). Tuttavia, quando realizza che questo è segno dell’incapacità a vivere una vita come gli altri, si deprime profondamente (Pfohl, Coryell, Zimmerman, 1986).
L’umore depresso lo porta a chiedere cure. La tendenza al ritiro e all’isolamento incrementa la vulnerabilità alla depressione nel DEP. Le fasi depressive esprimono il fallimento delle strategie di coping messe solitamente in atto, lo spazio creato dall’evitamento sociale diventa insopportabile (Alnaes, Torgersen, 1997).
AUTOSTIMA, ANSIA E FOBIA SOCIALE
Le cadute dell’autostima sono frequenti. A partire da una bassa autostima, forte è l’attivazione ansiosa quando l’evitante si prefigura e vive dinamiche relazionali. In questo il DEP condivide caratteristiche salienti con la fobia sociale: il senso di inadeguatezza con bassa autostima, l’ipersensibilità al rifiuto, l’evitamento sociale (Procacci; Popolo, 2000). La diagnosi differenziale è per questo difficile (Dahl, 1996). Ipotizziamo che la dimensione dell’appartenenza discrimini i due disturbi; in tale area il fobico sociale non sembra avere problemi, si sente inadeguato in situazioni di esposizione, a differenza dell’evitante che non riesce a “sentirsi” in relazione (Procacci, Popolo, Petrilli, Vinci, Semerari, 2002). Nell’evitante il senso di estraneità nella relazione mantiene una bassa autostima in quanto conferma una rappresentazione inadeguata di sé; nel fobico sociale invece la stima di sé è legata all’esito della prestazione e alla valutazione ricevuta dagli altri (Procacci, Popolo, 2000).
TRATTAMENTO
Il DEP e gli altri disturbi di personalità vengono definiti EGOSINTONICI, ovvero non viene esperita alcuna sofferenza soggettiva o dubbio rispetto alle proprie modalità di percepire gli altri e sé stessi, nonché di relazionarsi all’ambiente. Essendo i vari disturbi di personalità accomunati da tratti psicopatologici, spesso può essere diagnosticato più di un disturbo nello stesso soggetto (Caviglia G., 2007). Spesso accade che sia l’ambiente circostante ad inviare segnali di disagio per il modo di pensare, sentire ed agire dei soggetti affetti da tali disturbi. In riferimento ai disturbi di personalità possono esserci diversi livelli di gravità e, di conseguenza, possono esserci prospettive di trattamento favorevoli o poco favorevoli. Nel caso del DEP, trattamenti utili sono la psicoterapia individuale o di gruppo al fine di poter lavorare su elementi come ad esempio le convinzioni disfunzionali di sé e degli altri, l’autostima, le emozioni negative associate al disturbo.