a cura della Dott.ssa Filomena De Falco
In occasione della giornata internazionale contro l’abuso di droghe, noi psicologi del Filo Rosso abbiamo scelto di condividere con voi una canzone di Fabrizio De Andrè dal titolo “Il Cantico dei Drogati”, contenuta nell’Album “Tutti morimmo a stento” del 1968. Il testo della canzone si ispira alla poesia dal titolo “Eroina” del poeta Riccardo Mannerini (amico di De Andrè).
Questo cantico descrive il dramma di chi vive la tossicodipendenza. Nel 1968 le droghe non avevano ancora avuto la diffusione che si riscontra ai giorni nostri ma erano un vizio per pochi eletti, di giovani ricchi che potevano permetterselo.
Il testo appare crudo, amaro, distaccato, essenziale e per questo capace di lanciare un messaggio in modo efficace ed estremamente diretto. Lo stesso titolo scelto che include la parola “drogati” in qualche modo può apparire omologante, catalogante e spersonalizzante.
Il titolo scelto inizialmente era “Il cantico dei folletti di vetro” che indica le bottiglie di vetro contenenti alcool.
IL CANTICO DEI DROGATI
Ho licenziato Dio
gettato via un amore
per costruirmi il vuoto
nell’anima e nel cuore.
Le parole che dico
non han più forma né accento
si trasformano i suoni
in un sordo lamento.
Mentre fra gli altri nudi
io striscio verso un fuoco
che illumina i fantasmi
di questo osceno giuoco.
Come potrò dire a mia madre che ho paura?
Chi mi riparlerà
di domani luminosi
dove i muti canteranno
e taceranno i noiosi.
Quando riascolterò
il vento tra le foglie
sussurrare i silenzi
che la sera raccoglie.
Io che non vedo più
che folletti di vetro
che mi spiano davanti
che mi ridono dietro.
Come potrò dire a mia madre che ho paura?
Perché non hanno fatto
delle grandi pattumiere
per i giorni già usati
per queste ed altre sere.
E chi, chi sarà mai
il buttafuori del sole
chi lo spinge ogni giorno
sulla scena alle prime ore.
E soprattutto chi
e perché mi ha messo al mondo
dove vivo la mia morte
con un anticipo tremendo?
Come potrò dire a mia madre che ho paura?
Quando scadrà l’affitto
di questo corpo idiota
allora avrò il mio premio
come una buona nota.
Mi citeran di monito
a chi crede sia bello
giocherellare a palla
con il proprio cervello.
Cercando di lanciarlo
oltre il confine stabilito
che qualcuno ha tracciato
ai bordi dell’infinito.
Come potrò dire a mia madre che ho paura?
Tu che m’ascolti insegnami
un alfabeto che sia
differente da quello
della mia vigliaccheria.
Il messaggio che il cantico lancia è che il drogato non lascia spazio a Dio, a un amore, ma che è preda di un assordante vuoto nell’anima e nel cuore, che rende le parole senza senso e dunque rende impossibile comunicare con gli altri. Egli è ossessionato da fantasmi, costruiti dalla sua mente, che opprimono la sua esistenza con la loro presenza e con domande senza risposta: “perché non hanno fatto delle grandi pattumiere?… chi sarà mai il buttafuori del sole?… e soprattutto chi e perché mi ha messo al mondo…?”
Il ritornello riprende il vuoto che porta all’isolamento e alla vergogna: “come potro’ dire a mia madre che ho paura?”. Nel finale il drogato si rivolge direttamente all’ascoltatore: “tu che mi ascolti insegnami / un alfabeto che sia / differente da quello / della mia vigliaccheria“.
In questo finale inaspettato resta un briciolo di speranza e il desiderio di avere ancora fiducia negli altri.
Da alcuni drammi si può uscire trovando la forza di chiedere aiuto. Spesso è difficile trovare tale forza e la motivazione dentro di sé e allora può essere un primo passo quello di cominciare ad aprirsi e appoggiarsi alle persone che ci sono accanto e che ci tendono una mano in modo che esse possano accompagnarci verso la richiesta di un aiuto competente ad un professionista della salute mentale.
“La droga prende tutto e non dà nulla”
(William Burroughs)