a cura della Dott.ssa Rita Scognamiglio
Mia nonna mi teneva stretta dalle spalle. Altre due donne tenevano aperte le gambe. Un uomo ha preso un paio di forbici e ha tagliato le piccole labbra e il clitoride. Ho sentito un dolore lancinante, indescrivibile. Poi l’uomo ha infilato un grosso ago con un lungo filo sulle grandi labbra sanguinanti e le ha cucite, del tutto indifferente alle mie urla angosciose.
Ayaan Hirsi Ali, scrittrice, politica e attivista somala, rifugiata in Olanda, racconta così la sua esperienza di mutilazione genitale, subita all’età di 5 anni, nella sua autobiografia” Infedele” .
Le vittime vengono mutilate con utensili d’uso comune – quali lame di rasoio, coltelli, forbici o, peggio, con schegge di vetro, pietre appuntite e persino a morsi. Invece di diminuire, il numero delle ragazze che vengono mutilate aumenta. Con l’infibulazione la donna viene privata del piacere sessuale, quindi anche del desiderio, mentre la cucitura della vagina serve a garantire la verginità, assimilata alla purezza: le vergini sono un bene prezioso in Africa ed è questo uno degli inconfessabili moventi dell’infibulazione: mio padre poteva ricavare un ottimo compenso dalla vendita delle figlie belle e vergini.
Waris Dirie ambasciatrice dell’ONU e scrittrice, in prima linea nella lotta contro la mutilazione genitale femminile, nel libro autobiografico Fiore del deserto, racconta di essere stata sottoposta, a circa tre anni di età, alla mutilazione dei genitali; così descrive la pratica inumana.
Se penso che quest’anno due milioni di ragazze subiranno quello che ho subito io, mi sento male e mi rendo conto che quanto più questa tortura andrà avanti, tante più saranno le donne come me, furiose e ferite, che non potranno mai più avere ciò che è stato loro tolto”. Nel libro Figlie del dolore, scrive: “Mi sveglio in un bagno di sudore. È molto presto, non sono ancora le sei. La notte è stata breve e agitata, con terribili incubi che ricominciavano sempre daccapo. Provo a richiudere gli occhi, ma vedo ancora quelle immagini angoscianti: una miserabile stanza d’albergo, piccola e con la carta da parati ingiallita. Una bambina stesa sul letto, di dieci, dodici anni al massimo. Nuda. Quattro donne circondano il letto e la tengono giù. La bambina ha le gambe spalancate, e una vecchia le siede davanti con un bisturi in mano. Le lenzuola sono zuppe di sangue. La bambina grida con quanto fiato ha in gola. Continua a urlare. Grida da strappare il cuore.
Ayaan Hirsi Ali e Waris Dirie sono solo due del nutrito esercito di donne sottoposte a quella disumana tradizione che da migliaia di anni mette fine alla femminilità, in alcuni casi anche alla vita, di tante, troppe bambine.
Cos’è la mutilazione genitale femminile?
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità(OMS), rientrano nella definizione di MGF “tutte le pratiche che comportano la rimozione, parziale o totale, dei genitali esterni femminili, o qualsiasi altra lesione inflitta ai genitali femminili per ragioni non mediche”. Le mutilazioni genitali vengono praticate principalmente su bambine tra i 4 e i 14 anni di età. Tuttavia, in alcuni paesi, vengono operate bambine con meno di un anno di vita, come accade in Eritrea o persino neonate di pochi giorni come nello Yemen. Sono oltre 250 milioni le bambine e le donne che, nel mondo, hanno subito una mutilazione genitale femminile. E, ogni anno, circa tre milioni di bambine rischiano di essere sottoposte a questa pratica, che rappresenta un gravissimo pericolo per l’integrità fisica e psicologica della donna, pratiche che violano i diritti umani delle bambine e mettono in serio pericolo il loro benessere e la salute sessuale e riproduttiva.
Sebbene sia internazionalmente riconosciuta come violazione dei diritti umani, l’Unicef in un recente rapporto, stima che siano circa 68 milioni le ragazze in tutto il mondo che rischiano di subire questa pratica prima del 2030. Le MGF sono principalmente diffuse presso gruppi ed etnie dei Paesi dell’Africa subsahariana e della penisola arabica, ma sono praticate anche in Europa e in Italia, per effetto dell’immigrazione. Si conoscono vari tipi di mutilazioni genitali femminili con diversi livelli di gravità, di cui la più radicale è comunemente chiamata infibulazione, propriamente detta, o mutilazione faraonica, e prevede la riduzione dell’introito vaginale ad un piccolo orifizio, creato giustapponendo e cucendo le piccole e/o le grandi labbra, previa eventuale asportazione del clitoride, quest’ultima rappresenta la mutilazione dominante e viene imposta ad oltre l’80% della popolazione femminile, una pratica diffusa prevalentemente nell’Africa Subsahariana che l’immigrazione ha fatto conoscere anche in Europa e in Italia.
La pratica della mutilazione genitale è riconosciuta a livello internazionale come una violazione dei diritti umani delle ragazze e delle donne e come una forma estrema di discriminazione di genere, che riflette una profonda disuguaglianza tra i sessi. Poiché viene praticato su ragazze giovani , è una violazione dei diritti dei bambini. La MGF viola anche i diritti di una persona alla salute, alla sicurezza e all’integrità fisica, il diritto di essere libera dalla tortura e da trattamenti crudeli, inumani o degradanti e il diritto alla vita quando la procedura porta alla morte.
Nell’ambito degli obiettivi di sviluppo sostenibile, la comunità globale ha fissato l’obiettivo di abbandonare la pratica della mutilazione genitale femminile entro il 2030. Parliamo di un tipo di pratica che funge come una norma sociale o una regola culturale, interiorizzata dalle donne, la cui dismissione viene vissuta come una vergogna e come rischio di estromissione dal gruppo di appartenenza. Le mutilazioni dei genitali di una ragazza infatti, costituiscono una “marcatura simbolica” del corpo che garantisce il senso condiviso dell’identità di genere e la continuità intergenerazionale all’interno della famiglia e del gruppo di appartenenza.
L’essere stata “tagliata” diventa un elemento distintivo di appartenenza alla comunità. Sono pratiche imposte socialmente, in un sistema puramente maschilista per assicurarsi il controllo del corpo delle donne e della sessualità femminile. In molte comunità, in questo senso, i “tagli” e le “chiusure” sono considerati garanti della verginità di una ragazza e un prerequisito per il matrimonio fondamentale per l’onore della famiglia. Tali pratiche, hanno la funzione di controllo non solo della purezza ma anche della “pulizia”, insieme estetica e morale: tagliare è appiattire le sporgenze, pareggiare, lisciare, purificare. In alcune società che praticano le MGF, le donne non mutilate sono considerate impure o anche, semplicemente, sgradevoli esteticamente. Inoltre garantiscono l’ inserimento in reti sociali più ampie presiedute dalle donne anziane, nelle comunità migranti questo può significare un aiuto importante per trovare lavoro, avere assistenza nel maternage, sostegno finanziario, ecc. Finalizzata a prevenire, contrastare e reprimere tali pratiche è la Legge del 9 gennaio 2006 n.7 concernente la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazioni genitali femminile, con pena la reclusione da 4 a 12 anni, aumentata di 1/3 se la mutilazione viene compiuta su una minorenne, nonché in tutti i casi in cui viene eseguita per fini di lucro.
L’art.4 della legge prevede che il Ministero della salute emani Linee guida destinate alle figure professionali sanitarie e ad altre figure, che operano con le comunità di immigrati provenienti da Paesi dove si effettuano pratiche di MGF, per realizzare un’attività di prevenzione, assistenza e riabilitazione delle donne e delle bambine già sottoposte a tali pratiche. La legge prevede risorse finanziarie destinate alla formazione, ma anche a campagne di informazione e di divulgazione della cultura dei diritti umani e del diritto all’integrità della persona.
Nel 2019 un gruppo di cinque studentesse keniane ha sviluppato un’applicazione per aiutare le vittime e le potenziali vittime della mutilazione genitale femminile, arrivando nella rosa dei finalisti per il Premio Sacharov del Parlamento europeo per la libertà di pensiero. La loro candidatura segna un passo importante nella lotta alle mutilazioni genitali femminili, e incoraggia i più giovani a svolgere un ruolo attivo nella propria comunità. La pratica della mutilazione genitale appartiene a una forte tradizione culturale e, perciò, viene accettata passivamente da molte donne, occorre dunque sensibilizzare le comunità sulle conseguenze che questi interventi determinano sulla salute e sulla qualità di vita delle donne da realizzarsi a partire dalle scuole dell’obbligo. Come spesso accade nelle comunità fortemente patriarcali, per migliorare la vita delle donne è necessario che a cambiare siano soprattutto gli uomini, gli anziani e coloro che ancora decidono per il loro futuro. Per questo, recentemente, i programmi d’intervento per contrastare tali pratiche mirano a coinvolgere attivamente anche gli uomini nei processi di sensibilizzazione.
Concludo con le parole di Aldo Morrone: “la strada è lunga e tortuosa, con pazienza, fiducia e dialogo ci auguriamo che il fenomeno possa essere arginato il più possibile”.